martedì 15 aprile 2014



AUTONOMIA PROLETARIA: RESISTENZA COMUNITARIA



Di Maurizio Neri



Credo che oggi il punto fondamentale da cui ripartire resta l’esperienza dell’autonomia, quella con la lettera piccola, quella dello spontaneismo e della frattura con il bagaglio ideologico dei gruppi e dei partiti, l’autonomia operaia degli anni Settanta, quella che cercava la sintesi delle sue due diverse anime, quella operaia e operaista e quella studentesca e potremmo dire libertaria. Autonomia operaia si diceva e senza dubbio l’anima che prevalse alla fine fu proprio quella operaista, quella di Piperno e Scalzone, quella della rivista Rosso e di Toni Negri. Si è già più e più volte parlato dei danni a lungo termine che portò con sé la corrente operaista e quindi non è necessario né interessante ora stare a ripetere concetti già più volte ripetuti ma è importante far notare come allora avesse ancora un senso valido o perlomeno percepito tale parlare di autonomia OPERAIA, quando si stava entrando in un periodo di percepita maturazione delle lotte operaie all’interno delle grandi fabbriche fordiste e del loro stretto collegamento con le lotte studentesche degli anni passati. A distanza di anni e con il fatidico senno del poi possiamo dire che fu proprio il prevalere dell’operaismo all’interno dell’autonomia operaia a costituire quel peccato originale che in breve tempo portò prima alla morte dell’autonomia come movimento spontaneo ed autorganizzato dal basso e quindi al costituirsi in seguito di una struttura organizzata verticalmente, l’Autonomia con la A maiuscola. E tuttavia parlare di autonomia operaia allora aveva un senso e senza dubbio era proprio la grande fabbrica fordista (ed il connubio con l’area studentesca) ad essere il luogo più avanzato delle lotte e delle proposte ed era allora altamente percepibile e palpabile la presenza di quella che viene chiamata la coscienza di classe e la conseguente solidarietà e compattezza (nelle differenze!) di tutto il movimento. La storia della fine dell’autonomia e della crisi progressiva da quegli anni ad oggi è nota a tutti ed è stata già tracciata più e più volte e dunque non verrà ripetuta. Di quell’esperienza rimane la grande intuizione della fine delle forme partitiche e dei gruppi, la ricerca creativa di nuove forme di lotta e di nuove strutture e nuove teorie e l’esigenza di cercare una autorganizzazione dell’area attraverso un agire concreto e teso verso l’esterno e la cosiddetta massa. Basta ricordare in tal senso le esperienze delle radio come Radio Onda Rossa a Roma, Radio Alice a Bologna o Radio Sherwood a Padova dove per la prima volta potevano intervenire nelle trasmissioni le persone all’ascolto creando assieme la trasmissione stessa e trasformando in parte attiva il soggetto passivo, oppure alle lotte locali nei quartieri, le occupazioni delle case, le autoriduzioni delle bollette, le spese proletarie sempre nell’ottica del coinvolgimento e della proposizione verso la gente comune. Era un lavoro politico non strutturato in una visione di inquadramento passivo e già predeterminato ma in uno scambio continuo dei ruoli fino al coinvolgimento e la fusione in un'unica soggettività in lotta concreta. Si creava così un collegamento biunivoco di scambio reciproco tra interno ed esterno ed allo stesso tempo si apriva un varco tra massa e sistema in cui si inserivano le lotte e diventavano pratica quotidiana. Fu davvero per molti versi l’ultima intuizione veramente rivoluzionaria, la parte più avanzata di un movimento unico esente da avanguardie.

La convinzione di chi scrive è che questo passaggio sia a tutt’oggi il risultato più rilevante raggiunto dall’area comunista negli ultimi quarant’anni; da allora i passi fatti sono solamente stati passi all’indietro sostanzialmente cancellando e smantellando tutto ciò che era stato raggiunto. Gli stessi centri sociali nati come collettivi in conseguenza ed in continuità di quel lavoro proprio per proseguire sul territorio l’esperienza dell’autonomia sono andati con gli anni ad assumere un carattere autoreferenziale (salvo le debite eccezioni) fino a collassare su sé stessi e ad arrivare a marginalizzarsi e ad essere marginalizzati proprio da quel territorio che doveva essere l’obiettivo principale delle attività dei centri sociali stessi.
E’ stato detto più volte, riprendiamo il discorso dall’autonomia. Riprendere il discorso non significa chiaramente riprendere l’autonomia del 1974 o quella del 1977 e portarla qui come se non ci fossero in mezzo più di trent’anni.
Quell’autonomia è fallita, un pò sotto le spinte della repressione violenta dello stato e un pò sotto il peso dei propri errori e dei propri peccati originari, un pò per l’implosione delle previsioni e delle visioni operaiste e delle lotte operaie (ma sarebbe più corretto dire in tal senso per la fine stessa della coscienza di classe e della solidarietà di classe all’interno del mondo operaio). Appurato e dato per chiaro una volta per tutte che la classe operaia non esiste più o meglio non esiste più come soggetto politico autocosciente e come soggettività trainante e monolitica ed appurato che l’operaismo è definitivamente tramontato e le ulteriori teorizzazioni nate da quelle ceneri come le varie teorie delle moltitudini di Negri alla prova dei fatti si sono dimostrate inefficienti ed errate non rimane che cercare una nuova soggettività da cui ricominciare. Ora considerato che il marxismo di Marx è una scienza sociale in quanto tale segue le regole della metodologia scientifica il primo passo da compiere è quello di ragionare in termini metodologici e scientifici (ricordando che per Marx l’ideologia era una “falsa rappresentazione” della realtà). 


Metodologicamente dunque dobbiamo stabilire che all’interno di un discorso scientifico e attorno ad un nucleo fondativo (e tra le altre cose il marxismo è anche una filosofia fondazionale) si costruiscono poi le varie teorie che vanno progressivamente verificate nella prassi. Il nucleo fondativo del marxismo di Marx è strutturato attorno al proletariato inteso come classe sociale, quindi a parere di chi scrive è fondamentale riprendere come soggettività da analizzare proprio il concetto di proletariato. Cos’è questo proletariato oggi. È evidente che esso non può essere il proletariato di Marx, non è il proletariato di Lenin e non è nemmeno quello degli anni Settanta, e come detto poco sopra non è nemmeno la moltitudine di Negri. Non è possibile a mio parere oggi dare una definizione precisa e circostanziata di proletariato in quanto esso è definibile negativamente (ovvero dicendo quello che non è) ma non positivamente (dicendo quello che è); di una cosa sola si può essere certi, il proletariato contemporaneo vive polverizzato nei mille rivoli e rami di un sistema ultraflessibile e motore primo di un modello culturale ultraindividualista e corporativo che rende il proletariato stesso un fantasma che si aggira per il Centro Capitalista privo della percezione di sé, trasformato in macchina desiderante, desiderante di essere parte stessa di quel sistema che lo schiavizza e tende allo stesso tempo a marginalizzarlo (senza mai escluderlo chiaramente). Conseguenza di questo è che ogni definizione positiva che viene data oggi del proletariato finisce inevitabilmente per diventare un contenitore vuoto in cui si affastellano teorizzazioni prive di riscontro e dunque metodologicamente votate al fallimento alla prova dei fatti. Chi sarà arrivato a leggere fino a questo punto si starà chiedendo dunque il perché del titolo. Perché autonomia proletaria se non è in alcun modo individuabile con l’analisi e l’osservazione un proletariato cosciente di sé e inscrivibile all’interno di una teoria. La risposta sta nella seconda parte del titolo di questo articolo: resistenza comunitaria.

Come detto all’inizio si assiste ad una riproposizione da più parti dell’area comunista italiana della parola “comunità”. Noi come comunisti comunitari non possiamo che guardare con soddisfazione (e aggiungo anche con un sorriso sardonico) a questa novità assieme ad una profonda preoccupazione di vedere scippato ma soprattutto vanificato il nostro lavoro (per alcuni compagni più che decennale e tra numerose critiche e soprattutto infamie, accuse e marginalizzazioni) da un eccessivo uso superficiale del concetto di comunità. Una parola difatti è in sé solo un segno, un involucro dentro cui mettere un significato e a seconda del significato cambia anche il valore ed il  concetto stesso. Non è stavolta inutile stare a ripetere che quello che come comunisti comunitari intendiamo costruire è un tessuto interconnesso di comunità (intese come Gemeinwesen marxiana)  aperte di libere individualità legate tra loro da un tessuto connettivo che neutralizzi il passaggio dell’uomo da ente naturale ad ente mercantile. Comunità aperte che sappiano creare una intercapedine, un fulcro che si inserisca tra la massa atomizzata ed indistinta passiva ed il sistema istituzionale, borghese, liberista e capitalista, un modello intuito ed analizzato in parte già anche fuori dal centro capitalista, qualche cosa che non si contrapponga semplicemente allo stato ed al sistema ma sia in grado di inserirsi prima e di sostituirsi ad esso gradualmente (comunità aperte in grado di abbattere tra l’altro anche uno dei falsi miti più dannosi per l’area comunista di questi ultimi decenni ovvero il mito della contrapposizione totale e continua al Capitale, mito creatore di società chiuse in sé stesse ed autoalimentanti e autoreferenziali sostanzialmente innocue per il sistema stesso in quanto escluse da esso e dunque anche dal contatto con la massa, per volontà propria reale o percepita che sia).
Ed il proletariato? E la ripresa del discorso dell’autonomia? Qui sta il nodo centrale di questo breve articolo.

Si è detto poco sopra che il proletariato odierno è un proletariato disperso, polverizzato, non circoscrivibile e soprattutto senza coscienza di sé stesso e dunque ancora più sfuggente alle analisi anche dei più zelanti e dei più volenterosi. In una logica atomista e ultraindividualista in cui l’uomo è ente mercantile potremmo affermare (per molti provocatoriamente) che non esiste un solo proletariato come soggetto monolitico ma in potenza tanti proletariati diversi, tanti quanti sono gli enti mercantili atomizzati raggruppati di volta in volta all’interno di logiche corporative che creano unità di vedute puramente tattiche e contingenti sul momento per poi dissolversi di nuovo una volta raggiunto l’obiettivo a breve termine. In parole povere credo sia sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi anni le rivendicazioni all’interno del mondo del lavoro sono sempre state rivendicazioni di tipo corporativo in cui di volta in volta ogni categoria si ritrovava unita per questo o quel motivo avvolta nella sostanziale indifferenza delle altre (e a volte anche con un senso di fastidio) per poi ricadere nell’oblio e nell’apatia passiva a rivendicazione, lotta o protesta finita. E’ proprio la mancanza del tessuto comunitario di cui si accennava prima a creare questo stato di cose e si perpetra e riproduce sostanzialmente nella stessa maniera anche al di fuori del mondo del lavoro in ogni aspetto singolo della vita sociale dell’individuo e della società massificata e atomizzata allo stesso tempo. E dunque in un humus sociale, economico e politico simile che la ricomposizione di tale tessuto all’interno di comunità aperte di libere individualità fungerebbe da catalizzatore, da attrattore per quel proletariato senza coscienza e polverizzato, per quella miriade di potenziali proletariati (o proletari) che si ritroverebbero di nuovo assieme come un'unica soggettività collettiva aperta e non coatta, una unica soggettività non più passiva ma attiva e dunque di nuovo non più potenziale ma in atto e quindi con coscienza di sé.

Ecco il passaggio quindi, autonomia proletaria all’interno delle comunità; comunità autonome connesse tra loro in diversi gradi orizzontali proprio come le maglie di un tessuto, comunità proletarie, autonomia comunitaria, o meglio ancora comunità come autonomia e autonomia come comunità in una relazione biunivoca e sostanzialmente identitaria in cui i due termini (autonomia e comunità) finirebbero per assumere la stessa funzione e lo stesso significato.
Come infatti nell’esperienza dell’autonomia di trent’anni fa all’interno delle comunità si ribalterebbe il ruolo degli individui da soggetti passivi a soggetti attivi, soggetti creatori e creativi, soggetti che non subiscono il sistema e dunque cercano di interpretarlo e di adattarsi ad esso cercando di farne parte ma si sostituiscono ad esso assieme creando qualche cosa di nuovo che renderebbe inutile il sistema stesso senza allo stesso tempo autoescludersi da esso ma agendo come un virus all’interno di un organismo vivente, parassitandolo (ovvero sfruttando tutti i varchi e le contraddizioni che esso offre e mostra necessariamente per sua natura) e contemporaneamente modificandolo. Un ribaltamento progressivo dei ruoli in cui il sistema stesso diventerebbe alla fine soggetto passivo. È difatti il principio della delega, della rappresentatività, della volontaria cessione della gestione della propria vita che crea falsa coscienza e passività, che rende l’ente naturale umano soggetto mercantile ovvero consumatore di idee già pronte e preparate dall’esterno. La spinta creatrice spontanea d’altra parte annulla il principio di passività e quindi di mercantilizzazione del pensiero e quindi la dipendenza da qualche cosa che è esterno che non viene più visto a quel punto come punto fisso e quindi ineludibile ed inattaccabile ma come qualche cosa non solo di alieno (altro da sé, in cui il sé diventa declinazione sia di sé stessi che della comunità tutta) ma soprattutto di inutile.
Ma perché “resistenza”? Perché autonomia proletaria come resistenza comunitaria? E’ il caso di demolire un altro mito oramai logoro dell’area comunista italiana ovvero che esista una biunivocità fra rivoluzione e volontà rivoluzionaria. In sostanza non è altro che la sensazione che prima o poi attraversa tutti i compagni ovvero che basta essere comunisti o far parte di un collettivo o di una realtà comunista o anche semplicemente essere all’interno del movimento antagonista per vivere all’interno di un mondo rivoluzionario, più semplicemente essere dei rivoluzionari. È allora davvero il caso di dirlo bene una volta per tutte: nessuno di noi è un rivoluzionario, non c’è alcuna rivoluzione per il momento in atto o in potenza, non c’è alcun palazzo d’inverno da prendere nell’immediato futuro, questa non è un epoca rivoluzionaria. Si tratta sostanzialmente di una conseguenza del mito avanguardista; se difatti esiste un avanguardia allora esistono coloro che compongono l’avanguardia ed essi non possono dunque che essere rivoluzionari in quanto l’avanguardia non può che essere rivoluzionaria. Ma questa non è un epoca rivoluzionaria, non ci sono le condizioni nell’immediato per pensare ad alcuna rivoluzione nel Centro Capitalista e se non esiste alcuna rivoluzione allora non può esistere alcun rivoluzionario al pari del principio per cui se non hai delle scarpe da riparare allora non puoi essere un calzolaio e se non sai come coltivare la terra e non hai terra da coltivare allora non puoi essere e definirti un agricoltore. La rivoluzione non c’è, non sappiamo come farla e dunque non siamo rivoluzionari.



Ma allora cosa siamo? Siamo resistenti, perché questa è un epoca di resistenza, siamo coloro che debbono riprendere il discorso e tentare di ricominciare a portarlo avanti. Ma sia chiaro a tutti non siamo una avanguardia e non esiste alcuna avanguardia di resistenza. La resistenza si può pensare di farla e di trasformarla in qualche cosa di altro e di rivoluzionario solo all’interno di un tessuto comunitario ricostituito, all’interno di una logica di autonomia in cui si riunisca in atto il proletariato disperso ed assente. La resistenza non può che essere come il comunismo, comunitaria. Autonomia proletaria per la resistenza comunitaria e viceversa. Comunità Resistenti vuol essere solo un auspicio, un virus appunto che vada diffondendosi spontaneamente attraverso un meccanismo di interconnessioni (un tessuto) creative. Questo è il momento di farlo, questo è il momento di spingere e di alzare un po’ più la voce, questo è il momento. Le elezioni degli ultimi anni, hanno sancito esplicitamente la fine di ogni differenza tra destra e sinistra istituzionali, la sinistra radicale istituzionale è stata e si è annientata ed ora è fuori dai palazzi alla ricerca di nuova verginità all’interno di un movimento che è fermo ed in agonia. Una agonia che dovremmo cominciare ad ammettere sembra irreversibile o troppo avanzata per tentare di rimettere a posto ciò che da troppo tempo non lo è più e continua a peggiorare. La crisi di legittimazione territoriale dei Centri Sociali, l’immobilismo autoreferenziale del movimento antagonista italiano (ma anche di quello buona parte del Centro Capitalista con le solite debite eccezioni che non è necessario stare a ripetere ancora una volta), la cacciata dalle istituzioni della sinistra radicale istituzionale, gli appelli lanciati negli ultimi tempi alla solita astratta e tardiva unità dei comunisti rappresentano per chi vuole parlare ed intendere come noi (e con noi) il concetto di autonomia proletaria, di resistenza comunitaria, di comunità, di ripresa del marxismo, di ripensamento in genere del comunismo e dell’area comunista. C’è una grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Bene dunque ripartiamo, ripartiamo da zero, e facciamolo ora, queste sono le premesse, il lavoro fatto fino ad oggi è la nostra premessa.
Che fare? Se questa è la premessa, se questa è il nucleo, la struttura da cui partire e da realizzare, che cosa si deve fare per rendere tutto questo realizzabile? È chiaro infatti che è la prassi quotidiana, l’impegno personale e collettivo, le proposte concrete che rendono realizzabile o anche semplicemente verificabile una analisi; è il processo marxiano d’altronde ed anche il semplice buonsenso a ribadirlo.
Cosa proponiamo dunque, cosa propone chi scrive in questo Laboratorio, La risposta non c’è. Non c’è a questo punto alcun deus ex machina a mettere l’animo in pace di chi sta leggendo queste parole, non c’è il lieto fine o anche semplicemente la chiusura a questo articolo. Chi scrive non sta facendo un decalogo o un manifesto programmatico da esportare; il Laboratorio,   non è in cerca di proseliti o di esecutori a cui far mettere in atto ciò che già è stato scritto. Come già detto noi non siamo una avanguardia, né rivoluzionaria né resistente. Non siamo qui a proporci come deus ex machina per tutta l’area comunista e per il movimento antagonista; questo articolo non sono le parole di un oratore da strillare sopra di un pulpito, questa è solo una
proposta. La proposta contiene in sé già la risposta alla domanda. Ricucire un tessuto comunitario, riprendere il discorso dell’autonomia, ricreare un blocco proletario resistente significa sostanzialmente uscire là fuori, scendere per le strade e cominciare a guardarsi intorno, abbandonare le mura tranquille e rassicuranti delle sedi partitiche, dei centri sociali, della rete, non aspettare più che qualcuno si faccia avanti ma andare a prendere le persone. Come si può  farlo? Noi non lo sappiamo, noi navighiamo in mare aperto, cerchiamo e sperimentiamo ogni idea pratica, viviamo dei nostri fallimenti e delle nostre conferme e rimettiamo tutto in gioco. Non può esistere una risposta unica e valida per ogni realtà locale, non può esistere un modello unico di comunità aperta, non può esistere una parola d’ordine che racchiuda in sé ogni granello di quel proletariato polverizzato e anche se ci fosse non sarebbe e non è più compito nostro, compito di chi scrive ora, compito del Laboratorio, starlo a dire. Siete voi che ora state leggendo a dovervi spremere le meningi, a fare i passi concreti adesso, a riappropriarvi in prima persona di quella volontà creatrice, a creare quella comunità aperta attiva e pensante, siete voi a dover creare le condizioni per creare quel virus che modifichi attivamente il sistema.

Fino a che si continuerà ad aspettare le idee di qualcun altro, ad imitare le azioni e le lotte di altri e fino a che le idee continueranno ad essere tese verso l’autoalimentazione di quella piccola realtà, fino a che un idea una volta verificata sul campo si dimostrerà perdente e nonostante tutto si continuerà a riproporla costantemente senza cercare di nuovo e rimettere in moto un ciclo costante di analisi, teorizzazione e prassi allora tutte queste parole rimarranno lettera morta. Noi la nostra parte la stiamo  facendo, non chiediamo a nessuno di seguirci né di applaudirci, non cerchiamo in altri compagni lodi o critiche, il nostro lavoro politico sul territorio è rivolto certamente verso i compagni ma soprattutto verso chi compagno non è, verso la gente comune, verso le loro difficoltà senza premesse o condizioni di adesione. L’adesione deve essere spontanea e frutto di una maturazione che ogni individuo coinvolto mette in moto attraverso il circolo  virtuoso che le nostre proposte dovrebbero far partire.



mercoledì 1 gennaio 2014



 Ebbene, il progetto realmente rivoluzionario, comunista è la distruzione di ogni potere, la riappropriazione da parte degli uomini della propria umanità, della propria vita ora asservite al capitale e svuotate di senso reale, non mercificato. Così come l'obiettivo del movimento reale che tende al comunismo è la realizzazione della Gemeinwesen marxiana (il concetto cioè di essenza della comunità umana).




Lotta anti-TAV :una lotta comunistica

La lotta che si svolge da anni in Val di Susa contro il progetto dell’Alta Velocità Torino -Lione si è imposta all’attenzione del paese con tutto il suo peso politico ma anche culturale.

E’ apparso chiaro a tutti la valenza della questione che non è ovviamente più riducibile ad un semplice conflitto su una via di trasporto o ad un canale di comunicazione ma investe due concezioni opposte dell’Uomo e del modello di sviluppo che lo riguarda.

La lotta dei valligiani piemontesi si è rapidamente estesa a tutto il paese ed ha guadagnato subito le simpatie di chi contesta la riduzione dell’uomo e dell’ambiente circostante a mero mezzo o strumento di profitto.

Ciò non è sfuggito neppure ai tanti, troppi, interessi scesi in campo per spartirsi l’affare della TAV che hanno compiuto ogni sforzo possibile allo scopo di dipingere i Comitati Anti-Tav come retrogradi avversari del progresso e delle sue necessarie dinamiche .Su questo crinale i politici di destra e di sinistra si sono riscoperti bipartisan a dimostrazione che quando si minacciano le compatibilità del sistema capitalistico questi  si schierano all’unisono a difesa delle sue prerogative.

Ma c’è di più, la lotta Anti-TAV assurge ad emblematica ribellione contro la manipolazione totale del futuro di interi popoli che in nome del profitto non devono e non possono esprimere il loro dissenso pena l’emarginazione e spesso la criminalizzazione delle loro posizioni.

La comunità intesa come aggregazione naturale e dinamica di gruppi di persone che abitano e vivono il territorio in cui risiedono e ne conoscono i ritmi e la natura, diventano d’incanto un ostacolo da rimuovere per la macchina del progresso , leggi profitto di pochi, e come si faceva con le tribù indiane negli Stati Uniti  convinti a subire l’impatto di opere dannose e spesso inutili sul proprio territorio.

A onta delle tante parole spese sulla necessità di conferire alle autorità locali il compito di proiettare una democrazia partecipativa dal basso, il sistema partitocratico risponde arroccandosi a difesa dell’apparato governando i processi in modo sempre più autoritario e centralista.

Di fronte a questa tendenza massificante e spersonalizzante l’individuo che non conta nulla se non il giorno delle fatidiche elezioni, rimane difficile comprendere come questa democrazia possa resistere a lungo senza subire una profonda delegittimazione dal suo interno, e non certo per presunte o inventate spinte esterne.

Il senso di appartenenza ad una terra ed alla comunità sono tendenza inalienabili dell’Uomo e questo dato di fatto non è compreso ne’ dall’intellighenzia liberista della destra che cavalca un profitto senza scrupoli e ottenuto, se del caso, con i mezzi autoritari, ne’ dal progressismo della sinistra illuminata che avendo rovesciato il dogma materialista e scientista del socialismo marxiano lo ha adesso messo al servizio delle sorti magnifiche e progressive del capitale.

Proprio i fatti della Val di Susa ci dicono, invece, che una lotta di popolo, comunitaria , a difesa dei propri diritti democratici alla necessaria compatibilità del progresso con le necessità dell’uomo e della comunità e non in contrasto o in opposizione con queste, sono la via del futuro.

Sempre più crescerà in quest’epoca di globalizzazione la divaricazione tra una concezione atomista, individualista e antisolidale dei rapporti sociali ed una idea invece comunistica basata stavolta sul pieno riconoscimento della positività dei fattori naturali di appartenenza comunitaria che possono coniugare le istanze di giustizia sociale con l’effettività democratica di una partecipazione alle scelte ed alle decisioni della comunità stessa.

Il modernismo ed il progressismo deterministico sono oramai divenute la bandiera-simbolo dello schiacciasassi capitalista così come le ruspe che dai cantieri della TAV intendono spianare il tratto in questione:la manipolazione dell’ambiente per fini di profitto diventa così la logica prosecuzione della manipolazione genetica dell’uomo , delle produzioni agricole , degli animali fino alla creazione di un “mondo”ad uso e consumo delle elites dominanti.

Nessun dissenso è tollerato rispetto a questo dogma, che non può essere neppure messo in discussione, pena l’accusa di eresia e l’inizio della “caccia alle streghe” che ritualmente si scatena quando sono minacciati la scienza e il progresso di lor signori.

Solo la rivitalizzazione immune da tentazioni passatiste e reazionarie che sappia far riguadagnare senso alla comunità ed al suo ruolo di interlocutore necessario all’avanzamento democratico di questo paese può produrre risultati, solo la solidarietà con la lotta dei valligiani della Val di Susa può cementare da un esempio locale una prospettiva di liberazione nazionale.

Dalla Val di Susa ci giunge un esempio straordinario di autogoverno e di autogestione dal basso dei propri bisogni e del proprio futuro che deve essere di esempio per tutto un popolo che non può delegare ai partiti il proprio futuro, perché i partiti oggi hanno tutti, con diverse gradazioni, il medesimo impianto culturale di fondo.

Per questi motivi la vicenda della Val di Susa assume una valenza enorme che trascende l’esito della vicenda e fa piazza pulita anche a sinistra di tanti equivoci culturali che negli ultimi anni ne hanno distrutto la capacità di analisi ancor prima che l’intervento politico sulle grandi questioni contemporanee.


Maurizio Neri

venerdì 20 dicembre 2013



Individuo e Comunità: compenetrazione e distinzione 
di due entità.


 Maurizio Neri

 Per parlare a mente lucida del comunismo come legittima possibilità di organizzazione umana da conseguire nel reale attraverso la formazione di comunità solidali e compiute, tramite il progressivo cambiamento delle strutture e delle coscienze, bisogna ripartire proprio da quell'idea di capitalismo utopico, smithiana, respingendone integralmente il presupposto spontaneista prima ancora dell'esito catastrofico reale.
All'astrazione dei rapporti sociali che si determinano attraverso casuali movimenti spontanei di ciascuno, un comunismo comunitario deve opporre l'altissima considerazione del momento decisionale razionale, come momento di profonda condivisione umana e di possibile raggiungimento di un'armonia collettiva cosciente a priori.
Nella comunità l'armonia oggettiva finale è impensabile senza l'armonia intenzionale soggettiva di ciascuno, e non può esistere alcun equilibrio teorico valutabile ex-post ( sulla base, ad esempio, del progresso materiale conseguito)  che non proceda dallo stato cosciente di partecipazione e di ordine per ciascuno fin dal principio della sua appartenenza.
In questo senso Marx, nel formulare una teoria comunista senza Stato, si poneva in continuità con l'aspetto utopistico della risoluzione totale della conflittualità senza mediazione politica cosciente: se nell'utopia capitalistica la risoluzione della conflittualità classista dell'ordine antico feudale doveva avvenire con la paradossale e suicida esaltazione della conflittualità individuale a priori ( cioè quella soggettiva ed intenzionale che si esprime nell'atto egoistico sociale di ciascuno), nell'utopia comunista di Marx tale risoluzione avviene attraverso la definitiva soppressione di ogni rapporto cristallizzato, da quello di soggezione personale di diritto caratterizzante l'antico regime, a quello di soggezione di fatto al capitale, caratterizzante il modo di produzione capitalistico. Il fatto che l'utopia comunista di Marx fosse un'utopia inscritta all'interno della misura umana ritrovata nel limite e nell'adesione all'essenzialità della vita, e che invece l'utopia capitalistica fosse un'utopia dell'illimitato e del delirio smisurato dell'immane raccolta di merci, è un fatto assolutamente fondamentale e dirimente, ma al momento non necessario ai fini dell'aspetto utopico spontaneistico, ad entrambe le utopie comune, che mi interessa indagare.
Soppressi gli elementi di soggezione dall'esterno ( di diritto e di fatto) e le loro cristallizzazioni ideologiche conseguenti ( le sovrastrutture culturali, religiose, politiche ), secondo Marx, si sarebbe potuti giungere al comunismo, ovvero la potenzialità solidaristica umana si sarebbe potuta risvegliare dal torpore, a partire dalla spontaneità dei rapporti e dall'autorganizzazione, senza cioè passare per il momento politico e, a priori, etico, credendo che la contraddizione tra uomo e uomo nel relazionarsi in società si sarebbe estinta automaticamente una volta estinti anche i suoi presupposti oggettivi ( la proprietà privata come rapporto giuridico tutelato dalla legge). In tal senso la rivoluzione borghese non poteva che essere vista come fattore progressivo in sé ( seppur parziale e falso),  poiché dava inizio al processo di decostruzione dell'esistente.
 ( In proposito coloro che vedono in Marx il responsabile dell'elemento ultra-politico parossistico del comunismo realmente esistito, stravolgono completamente l'ordine dei problemi, poiché l'eccesso di Marx fu semmai individualista, e non certo collettivista e ultra-politico).
Affermare la centralità della comunità come luogo di esplicazione reale del comunismo, significa esattamente respingere ogni pretesa positivistica del comunismo come movimento procedente dalle relazioni spontanee di uomini liberati dalle catene dell'ideologia, della proprietà, e in una parola, di uomini liberati dalla contraddizione tra società e individuo.
Tale contraddizione in sè non è superabile, a mio avviso, con il trapasso dal modo di produzione capitalistico a quello cooperativistico comunista, poiché permane strutturale all'uomo una dialettica ( che lo caratterizza naturalmente) tra sfera intima e sfera comunitaria che lo induce ad occuparsi di ciò che è in comune in maniera profondamente diversa rispetto a ciò che è intimo ( diversa e non qualitativamente peggiore o eticamente meno fondata )
Capire questo è un passo decisivo per rivendicare l'autonomia della politica comunitaria come luogo di partecipazione reale ontologicamente distinto dall'individuo.
Anche qui, la differenza tra distinzione e separazione è essenziale: separazione significa alienazione e soprattutto si traduce in un' operazione astratta e teorica possibile solo a posteriori, in cui si descrive l'individuo come atomo isolato che aderisce ad un contratto difensivo reciproco con il resto del corpo sociale, secondo uno schema artificiale che non considera il fatto che individuo e comunità non sono concetti pensabili se non insieme. Inutile dire che quest'idea è alla base del meccanismo di riproduzione capitalistico, e che è la fonte di ogni male sociale odierno.
Distinzione nell'unità e nella compenetrazione reciproca, è invece a mio avviso la reale descrizione del rapporto tra individuo e comunità. Senza distinzione, infatti, si ricorre ad un artificio di segno opposto altrettanto pericoloso, che vorrebbe far scomparire, sempre attraverso un'operazione astratta a posteriori, l'importanza dell'autonomia comunitaria e dell'autonomia individuale come spazi rigorosamente diversi con il conseguente annullamento di ogni spazio intermedio tra singoli e comunità umana totale.
Riconoscere tale differenza è importante soprattutto per rivendicare concetti spesso negletti o ostaggio di false o persino oscene interpretazioni e manipolazioni, che affronterò nei prossimi paragrafi.



La responsabilità dei singoli.

Per introdurre con nettezza la proposizione della compenetrazione nella distinzione ta individuo e contesto, mi è utile tracciare il concetto di responsabilità individuale, oggetto di opposte visioni, oggi dominanti, confluenti entrambe nell'individualismo esasperato deresponsabilizzante.
 Laddove non si veda la distinzione ontologica tra individuo e comunità, si rischia di far sparire in una presunta onnicomprensività del sistema le proprie azioni individuali giustificandole a priori per l'influsso nefasto di un sistema giudicato come cattivo. Tale idea si rovescia in maniera immediata e paradossale nel peggior individualismo leggittimatore del disordine, poiché, negando al singolo la possibilità nonché il dovere di essere presente e vigile,  al di là ed oltre la degenerazione comunitaria o sociale, lo pone rispetto al sistema in una posizione di comodo e di rivendicazione: non la rivendicazione stralegittima dei lavoratori sfruttati o degli inquilini sfrattati, ma la rivendicazione comportamentale di fondo, dell'individuo lamentoso assorbito dal meccanismo anonimo di riproduzione sociale ( vedremo in seguito come tale degenerazione paradossale, ma chiarissima di tipo individualistico-collettivista sia inerente all'attuale mondo formalmente anti-capitalistico di nicchia, post-moderno ed anarcoide).
L'antitesi di tale cecità di fronte a questa distinzione, è, all'estremo opposto, il delirio meritocratico-responsabilizzante liberale, paravento falso di ogni discorso odierno di difesa dell'ordine capitalistico costituito. Il cinismo liberale in proposito è talmente flagrante da risultare persino disgustoso: la pretesa di attribuire all'uomo già strappato a forza dalla propria comunità, un'etica della responsabilità avulsa dal reale, cioè esclusivamente limitata al rispetto dei presupposti egoistici e distruttivi del sistema stesso ( competitività, proprietà privata, più lavoro= più soldi, sacralizzata legge del più forte) si estrinseca in un'etica apparentemente razionale, cosi' tanto razionale da sembrare persino matematica, per cui nella libera contrattazione del libero mercato, chi fallisce è colpevole di incapacità o pigrizia. Non mi soffermo oltre su quest'etica spazzatura, le cui radici non vanno ricercate ( come premesso) in un presupposto egoistico di una cricca di banditi, ma in una falsa utopia contraddittoria pericolosissima che ci ha condotto al pietoso stato di coma comunitario in cui versa il mondo contemporaneo occidentale.
Affermare la responsabilità individuale reale significa invece, credere semplicemente che ogni singolo abbia il sacrosanto dovere, in ogni tempo ed in ogni sistema, di agire socialmente in conformità alla necessità e al rispetto del prossimo, senza alcuna scusante a posteriori da paranoia sistemica, nonché il diritto di porsi soggettivamente in aperta critica alla comunità.
Il dovere legato al rispetto delle norme comportamentali e la corrispondenza ai criteri di proporzione ( nelle azioni) e necessità ( si ruba per fame o per impellenza, non per diletto e il rubare in sé resta comunque un'azione negativa ) non possono mai essere superati dal vittimismo sistemico per cui ogni cosa che va male è colpa del sistema e pertanto si è legittimati ad essere antisociali fino a che non ci sarà la rivoluzione: è evidente come tale pensiero sia in realtà speculare al cinismo della falsa responsabilità liberale ( secondo cui il poveraccio che ruba il pane merita la galera, come il lavavetri che disturba l'automobilista).
I due estremi devono essere visti entrambi, a mio avviso, come negazione dell'individuo libero e comunitario. Sapendo, da un lato, che chi si erge a critico del sistema corrotto senza mettere in radicale discussione previa sé stesso e il proprio comportamento finisce per essere risucchiato inevitabilmente dallo spirito del branco, e la sua critica al sistema resterà inevitabilmente o sterile lamento o schiamazzante estremismo di nicchia. E sapendo, dal lato opposto, che non è tollerabile alcun cinismo o sproloquio o delirio sulla responsabilità individuale in senso economico-meritocratico nella società del caos produttivo, e della plutocrazia più assoluta. ( E aggiungo che il merito di risultato non dovrebbe mai assurgere in alcun sistema sociale ad ideologia di fondazione valoriale dell'etica comunitaria, essendo piuttosto l'impegno e il senso del dovere reciproco le uniche variabili di condivisione reale della vita comune).
In tempi in cui spadroneggiano le due ideologie speculari e falsamente opposte del liberalismo meritocratico individualista e dell'anarchismo comportamentale pretenzioso, queste precisazioni non sono affatto inutili.

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